Riceviamo e publichiamo questo articolo di:
Nino Labate
segretario e socio fondatore dell'Associazione culturale "Polis Duemila"
Sul dramma dell’aborto devo confessare la mia incompetenza tecnico-scientifica. Brutta espressione per una materia che tocca le costanti ultime della nostra esistenza, la vita e la morte, che interrogano anche, se non soprattutto, la nostra coscienza. Sia essa religiosa, quanto laica.
Il solito e stimolante buon articolo di Paola Gaiotti del 17 gennaio in archivio, mi spinge tuttavia a qualche riflessione che per quello che ho premesso non può che essere generale.
Tenterò di inserirla nel contesto culturale e nello “spirito del tempo” che viviamo. Nella storia dei nostri giorni, poiché persuaso che le interessanti discussioni sulla fine del governo Prodi e sul Pd che leggiamo su questo stesso blog, abbiano stretti legami con le mie divagazioni.
Mi scuso della lungaggine.
La parte finale dell’articolo della Gaiotti, mi trova perfettamente d’accordo: per l’aborto si tratta di incentivare e promuovere la “scelta preventiva”, e si tratta soprattutto di politiche sociali e familiari “... le misure economico e sociali alla maternità”. Non c’è migliore conclusione su un tema complesso e dirompente come questo. Aggiungo che anche i richiami storici sulla 194 mi trovano in sintonia, pur in assenza, per brevità suppongo, di qualche sottolineatura sulla fine degli anni ’60 e inizi ’70, se proprio vogliamo da Berkeley e dalla Sorbona in poi, che comunque la Gaiotti conosce molto bene, sia nelle luci -“Liberazione”- , quanto nelle ombre -“ Rivoluzione”.
E’ comunque in questi anni, anni di capitalismo quasi maturo ancora poco globalizzato, che si pongono definitivamente le basi postmoderne ai diritti individuali e alle differenze. Questi diritti una volta fraintesi nelle finalità e una volta stiracchiati sino alle estreme conseguenze, li ritroviamo ai nostri giorni sotto forma di anomia senza relazioni, di individualismo alla ricerca di un “Capo forte” a cui delegare le sorti della Polis, di soggettivismo senza l’altro, di polverizzazione condominiale della rappresentanza politica. Processi in atto che possiamo catalogarli meglio quando ragioniamo sui “coriandoli” e sulle “soggettività molecolari” in assenza di Istituzioni, come ci ricorda De Rita. Sulla assenza di “centri di gravità” sia religiosi ( al massimo il Dio intimo “tappabuchi” che ci soddisfa, e la religione fai-da-te), quanto laici, ( la Costituzione sconosciuta o rimossa, principi di etica laica). E quando osserviamo la crisi di identità che ci rinchiude nel privato: precarietà e flessibilità del mondo lavorativo, pluralità dei nostri rapporti, crisi della famiglia arrivata alla terza settimana e perdita di autorità-autorevolezza dei genitori, crisi della nozione di comunità, crisi della politica e della democrazia ( grandi poteri finanziari e “Postdemocrazia”), populismo da telepolitica diffuso, berlusconismo, antipolitica e critica dei partiti, girotondismo, spontaneistico, grillismo, ecc. A ben guardare ognuno di questi eventi-fenomeni si regge sul diritto dell’individuo, non più persona in relazione, ma atomo e frammento senza legami sociali con tanta autoreferenzialità e narcisismo. Un individuo che mentre si guarda allo specchio si interessa solo del proprio orticello. Valori comuni e regole comuni, sono intralci a questo diritto, ripeto frainteso. Lo Stato globalizzato, già in crisi per conto suo, in queste condizioni si deve ritirare sempre di più e deve “lasciar fare”, sino all’anarchia della famosa favola delle api settecentesca di Bernard de Mandeville. Meno semafori mette meglio è per le libertà e l’utilità individuali, ma anche per l’illegalità. Sono i principi questi di neo-liberismo globalizzato, che dei “valori” del liberalismo storico mantengono però ben poco. Ma sono principi di darwinismo sociale che noi respiriamo nella cultura che domina e accompagna, anche con i mass media e i suoi Grandi Fratelli, i nostri comportamenti quotidiani e la nostra transizione.
Proprio a cavallo dello storico ’68, un sociologo utopista e controcorrente, Ivan Illich, con una certa dose di ideologismo antiborghese a modo suo rivoluzionario, contro ogni istituzione, in ogni caso contestatore colto, scrive dei saggi che nella loro dirompente provocazione faranno in quegli anni discutere. Dopo aver sostenuto nel suo “Descolarizzare la società” del 1972, che la scuola non serve a niente e che i diplomi e le lauree producono solo funzionari del sistema economico dominante, una tesi ahimè sbagliata visto che il “sei politico” ha prodotto i danni che conosciamo e di cui ne paghiamo ancora le conseguenze, scrive nel 1976 un suo pamphlet sui limiti della medicina : “Nemesi medica” . Quando si pubblica questo libro, in Italia il dibattito sull’aborto era iniziato. Due anni dopo porterà alla legge 194. Per chi abbia voglia di leggere le provocazioni contenute nella “Nemesi”, dalle quali bisogna naturalmente prendere le distanze, rimane tuttavia un dubbio cartesiano che a distanza di tanti anni non è stato ancora fugato: Illich sostiene che nei paesi sviluppati di capitalismo avanzato gli individui pretendono che la nascita, la crescita, la vecchiaia e la morte vengono superate dalla medicina che proprio per questo diventa una merce di consumo come tante altre. In questo modo i medici pensano di aver da fare con l’individuo-paziente, consumatore di medicina isolato e atomo sociale. Il medico serve solo per curare e non a prevenire le malattie. E la salute diventa una affare economico con grandi profitti. Così che gli scienziati distaccando la medicina dai valori la distaccano dall’etica, avvicinandola all’economia di mercato e alle grandi multinazionali delle biotecnologie che possiedono le conoscenze scientifiche in esclusiva depositate nei loro potenti centri di studio e ricerche. Queste, grosso modo, le sue provocazioni che tuttavia interessano la rivoluzione antropologica che viviamo. Ora, che le cose non stiano esattamente così basti pensare ai progressi impensabili che la medicina ha compiuto negli ultimi trent’anni e al prolungamento della nostra vita media. Ma che la scienza medica e la ricerca scientifica e farmacologia, abbandonate a se stesse e alle logiche del profitto possono produrre questi effetti indesiderati e creare danni imprevedibili alle attese sempre prometeiche e faustiane dell’uomo di oggi, non dovrebbe essere difficile capirlo. Illich appartiene alla cultura della contestazione degli anni ’60. E si vede! Ciò non esclude che il recupero dell’umanità del paziente e della paziente, il recupero del loro contesto socioeconomico, diventano la scommessa della medicina negli anni a venire, all’insegna di una prospettiva comunitaria e preventiva e non solo di quella curativa individuale che produce affari. Questo è la sfida che Illich ha lanciato.
Dunque ricerca medica e sviluppo delle biotecnologie funzionali ad un sistema economico dei profitti in ascesa, che reclama differenze e consumi individuali, rottura di legami sociali, anarchia, assenza di regole?
Dunque progresso sociale che ai nostri giorni reclama ricchezza e successo costi quel che costi, con pochi doveri verso gli altri, deboli e ultimi soprattutto, anche verso chi ci è più vicino?
Non tutto è così, ma sono domande generali aperte comunque da porre, che si legano alle altre particolari che ci riguardano: in che misura queste domande interessano la 194? E se non la interessano, come mantenere questa legge facendola misurare col progresso scientifico degli ultimi trent’anni ma riportandola all’interno dei legami sociali e delle regole, della comunità degli affetti e del rispetto della vita?
Dell’articolo della Gaiotti ho detto che condivido quasi tutto. Non condivido invece gli strali che ha voluto lanciare su Giuliano Ferrara. E ne spiego il motivo. Sono infatti un impenitente innamorato dell’approccio fenomenologico ai fatti culturali e alla realtà. Questa pessima abitudine, la adopero anche per i fatti politici. In questo caso mi porta a sospendere il giudizio su quello che Ferrara pensa. Così come mi suggerisce di mettere tra parentesi i miei pregiudizi su di lui. Mi spinge invece a soffermarmi su quello che dice e fa, e non sulle sue riserve mentali per quello che dice e fa, che allo stato dei fatti ignoro. Nei confronti del triste “fatto” dell’aborto, se ho capito bene Ferrara si esprime in questo modo: “…la 194 non si tocca, dopo trent’anni si potrebbe però migliorare… il diritto alla vita si potrebbe promuovere anche nella Carta dei diritti dell’uomo “. Tutto qua. Ferrara ha chiamato moratoria queste proposte, scatenando gli ovvi interessi della Chiesa cattolica con qualche curiale forzatura. E anche su questo punto non vedo nessuno scandalo sino a quando la Chiesa fa il suo mestiere. Mi preoccupo quando avviene il corto circuito tra religione e politica, tra Dio e Cesare, nel quale sguazzano gli opportunisti neocon e teocon di ogni tempo. Mi avvio alla conclusione.
Ogni principio spesso fa appello ad un valore primo fondante che è difficile dimostrare razionalmente. Libertà, solidarietà, eguaglianza, utilità, contratto, pace, vita, morte, la stessa idea di democrazia, spesso non hanno appigli superiori a cui attaccarsi. Ci sono. Li avvertiamo. E neanche il più intelligente positivismo è riuscito a trovare la scaturigine. Sono dunque principi primi sui quali noi ci costruiamo sopra teorie come se fossero principi dimostrati. Sono principi primi invece sotto molti versi indimostrabili. Appartengono alla coscienza? Alla natura dell’uomo? Alla prassi e all’esperienza? Alla religione? Al contesto storico e sociale? Domande solo apparentemente lontane dalla politica se si prescinde da una novità di storiche conseguenze, non solo culturali ma appunto politiche tout court, che investe le culture riformiste di tutto il mondo e dunque anche il futuro del Pd: la previsione dell’eclissi del sacro, non solo si è dimostrata infondata ma pur nella secolarizzazione progressiva ha visto emergere una consistente domanda di religioso e una “Voglia di comunità”, una domanda di senso e di legami sociali, verso cui mancano risposte laiche intelligenti. Intendo dire razionali. Mentre siamo in presenza delle risposte delle destre conservatrici e religiose, impaurite dalla rivoluzione scientifica e antropologica che non riescono a governare. Il rischio che corre la cultura di sinistra e autenticamente liberal, non solo in Italia, è allora quello di farsi inconsapevolmente garante del progresso senza limiti, facendo così da sponda ad un neoliberismo economico ( lo sviluppo indefinito) e filosofico (l’individuo), ma cedendo ogni spazio critico alla culture conservatrici delle destre. Anche a quelle religiose e fondamentaliste che non accettano alcun dialogo con la modernità. Nella confusione a cui stiamo assistendo, la discussione sulla moratoria della 194, che poi si interseca con quella sulla laicità, necessita allora di una premessa. Quella di mettersi d’accorso se siamo o non siamo in presenza, anche dentro il Pd, di una omologazione culturale all’insegna della filosofia individualista dei tantissimi desideri, funzionale ai sistemi economici neoliberisti dei tantissimi consumi, ormai in fase avanzate in tutto l’Occidente sviluppato. Intendiamoci dicendo ciò non si vuole demonizzare il mercato, la crescita e lo sviluppo economico, la distribuzione di ricchezza: il mercato, la crescita, lo sviluppo economico, la distribuzione di ricchezza servono al riscatto e alla mobilità sociale. Ma quanto distinguere tra mercato e ideologia del mercato, tra crescita e sviluppo economico responsabile, e crescita sviluppo economico irresponsabile, tra distribuzione di ricchezza e disuguaglianze.
Le analisi più corrette sulle trasformazioni antropologiche in corso e sullo spirito dei nostri tempi, avvertono che la deriva individualistica a cui stiamo assistendo propone una nuova gerarchia di valori nella quale è sempre più difficile trovare il Noi, ma sempre più facile trovare l’Io.
Se una errata interpretazione del Sessantotto ha avuto queste conseguenze, non sono in grado di dimostrarlo.
Domanda per il Pd: ma è questo che cerca la cultura di sinistra?
Appartengo ad una generazione alla quale l’idea di comunità inclusiva - non quella esclusiva e pericolosa della lingua, della terra e del sangue - l’idea della sfera pubblica locale nei suoi rapporti interpersonali - non quella del localismo becero - l’idea dell’importanza del partito politico partecipato che produce cultura sociale - non quello americano una tantum- sono invece le idee fondamentali della democrazia e della polis, da Pericle in poi, che rimandano alla libertà nelle regole, a legami di convivenza, ma anche a valori collettivi condivisi.
Appartengo ancora ad una generazione in cui l’idea dei microcosmi relazionali che noi non scegliamo perché spesso non li possiamo scegliere, familiari, amicali, territoriali, lavorativi, hanno un posto rilevante nella formazione delle idee, forse superiore a quella dei mass media.
Ebbene tutto ciò mi spinge a pensare che il ritorno sulla scena pubblica della domanda di valori, di alcuni valori dati per spacciati, denota la messa in discussione ( non dico la messa in mora per evitare fraintendimenti) della società del benessere infinito, del progresso e dello sviluppo illimitati, dell’innamoramento della scienza e della tecnica, all’insegna della dignità dell’uomo. Rimango forse uno degli ultimi giapponesi a sostenere che se il Pd, con tutta la crisi che attraversa, vuole veramente essere un partito nuovo prima ancora delle procedure, degli statuti e dei manifesti, deve promuovere una cultura nuova adeguata alle sfide del XXI secolo e alle sue novità epocali. Quando valutiamo i risultati sociali ottenuti, mettersi a rimorchio del progresso scientifico e tecnologico non è difficile. E’ molto più difficile presidiare criticamente questi sviluppi, con l’occhio rivolto al futuro. Sommessamente affermo che solo un autentico partito democratico del XXI secolo potrà affrontare e risolvere le storiche novità dietro l’angolo. Una volta però che accetti la sfida di essere un partito che si fa carico di una cultura nuova.
Domanda per tutti: dove sta scritto, e perché queste cose li devono dire Giuliano Ferrara e Ferdinando Adornato, mentre sono nelle radici sia dell’umanesimo marxista sia del cattolicesimo democratico?
Nino LabateRoma , 21 gennaio 2008