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venerdì 16 maggio 2008
Il che fare del PD
a cura di RNxPD
(19:11)
La convocazione dei circoli del PD per un dibattito diffuso sul che fare dopo la sconfitta è, ovviamente, la decisione giusta; e lo è anche perché i circoli sono i luoghi appropriati per evitare derive improprie. Il nostro dibattito non può essere nè un esercizio accademico di sociologia sui risultati, né una resa dei conti interna al partito, né la riproposizione di correnti: tentazioni ricorrenti nelle sedi in cui è il ceto politico che governa l’ agenda.
Questo dibattito è invece la base ineludibile, e tanto più per un partito che, appena nato, ancora alle prese con tutte le sue contraddizioni, ma pur sempre portatore di una speranza di rinnovamento, si trova a dover fare i conti sul senso di una sconfitta pesante per il partito e per il paese, pesante anche psicologicamente per ognuno di noi. E’ insomma il prologo necessario al che fare. Vorrei ricordare che stiamo analizzandola a trent’anni esatti dal chiudersi tragico, con l’assassinio di Moro, di una prospettiva, dall’aprirsi di una fase mai giunta a maturazione piena, segnata da un crescente degrado della vita pubblica.
Per quanto mi riguarda vorrei ricavare i compiti che ce ne derivano per trovare la forza e il senso del ripartire, fermandomi non tanto sulla scomposizione complessiva del voto, sull’analisi delle fedeltà e dei ritorni, che pure ci sono stati, di ciò che insomma ha funzionato; vorrei fermarmi su ciò che ha fatto la differenza fra vincere e perdere, una differenza che si esprime nel recupero berlusconiano e della Lega, nell’aumento dell’astensionismo, soprattutto di sinistra, nel permanere di un clima di diffidenza per la politica che non siamo riusciti a far superare e di cui fa parte la sottovalutazione sistematica degli atti del Governo Prodi.
Il primo punto su cui mi interessa mettere l’ accento è il rapporto fra continuità e discontinuità della vecchia politica. L’immagine della discontinuità positiva del PD, della sua novità, è stata evidente, e, per la sua parte, vincente, sul problema delle alleanze, sul “correre da soli”, che ci ha offerto anche nuova popolarità, anche se forse annunciata troppo in anticipo a un avversario che non era ancora affatto certo della convenienza di andare alle elezioni.
E’ rimasta però forte, per addetti ai lavori, per militanti per semplici elettori, la continuità negativa della vecchia politica: scavalco di ogni attesa di partecipazione della base e degli stessi organi dirigenti, prevalenza della cooptazione centralistica, non sempre felicemente motivata, eccesso di garanzie agli uscenti. Particolarmente grave il debole protagonismo dell’associazionismo civile, di quella società che incarna nel concreto il senso della solidarietà; infine cancellazione netta della novità della presenza femminile, al limite del ridicolo: con liste che avevano gli ultimi cinque o sei posti tutti riservati alle donne, per fare la media, e una donna su quattro nelle teste di lista. Su questo punto bisognerà tornare, ma voglio anticipare solo un concetto. Il ridimensionamento degli obiettivi dal 50% al 30%, era in parte obbligato dalle garanzie per gli uscenti; ma è stato attuato con due limiti: la riconferma automatica di tutte le parlamentari uscenti, riducendo lo spazio al nuovi ingressi; a scegliere e decidere le candidature di uomini e donne, a determinare le liste, comunque composte, avrebbero dovuto esserci anche un 50% di donne. Non ci sono state e nessuno ha avvertito la gravità di questa assenza: il tema della parità nei luoghi di decisione passa anche da questo.
In questo quadro è stata inevitabile l’umiliazione della novità ulivista che è alla base della nascita di questo partito. Di fatto ha prevalso la logica della fusione fredda, della preservazione degli equilibri politici ereditati, con scarsa attenzione a quanti sono stati pur sempre gli antesignani e non gli oppositori del progetto Partito democratico. Si è dimenticato che dietro la nascita del PD c’è stato a lungo, fin dal 1995, un articolato pullulare di associazionismo formalmente civile, di fatto già politico, certamente minoritario, , ma cui si deve in sostanza la permanenza del progetto nella società italiana, la pressione costante per il superamento del sistema, in particolare durante il quinquennio berlusconiano. Un associazionismo che era in grado di autorappresentarsi e autoselezionarsi. Troppi di costoro non si sono sentiti interpretati.
Ma dietro questo dettagli c’è da guardare il senso profondo, e determinante, della sconfitta, un senso che rimanda al crescente degrado civile del paese. Possiamo esercitarci quanto vogliamo nel cercare le motivazioni ragionevoli ( di fatto i nostri errori) del successo della Lega e del PDL, dalla sicurezza alle tasse alla burocrazia, e ricavarne la lezione: il fatto è però che nemmeno questi temi lo giustificano, se non all’interno di un sistema di attese individuali e di informazione sistematicamente distorto, quasi che la politica berlusconiana possa davvero vantare dei meriti su questi piani. Il dato che emerge è nel disastro della cultura diffusa del paese, prodotto dal circolo vizioso fra una sistema d’informazione largamente incivile e dal distacco della politica dal coinvolgimento dei singoli; una politica che quando c’è, è ferma a emozioni primordiali non verificate, concentrata sul proprio particolare, segnata da reazioni anche in molti casi comprensibili ma eterocontrollate, una opinione pubblica che non cerca e non vuole contatti con la politica vera. Per dirla sinteticamente: io vedo, nella mia incontenibile faziosità, che in tutto questo il vero trionfatore è il Piano di Rinascita Gelli.


Cosa ricavo da questi giudizi?
Il primo dovere, immediato, che nasce da questa sconfitta è il recupero pieno della novità che ha segnato il PD, che è la sua ragione sociale, il recupero di prassi democratiche piene, in netta discontinuità con il passato. Alle dimissioni di dirigenti locali, speso inveitabili se non altro per avvenuta elezione, non possono seguire le solite nomine decise in gruppi ristretti. Riterrei che le assemblee costituenti regionali e provinciali devono farsi finalmente carico di una scelta davvero costruita insieme, ancora meglio se a partire da primarie sui candidati segretario e coordinatore da svolgere dagli iscritti nei circoli, che non possiamo chiamare solo a dibattere.
Ma dobbiamo mettere a tema anche una revisione del funzionamento degli organi dirigenti pletorici su cui siamo andati costruendo il PD. Nella assemblee costituenti che non possiamo modificare, che restano l’ asse del processo, vanno individuati gruppi di lavoro tematici che diano senso a una responsabilità, che non ha avuto e non ha come esprimersi, e questo prepara abbandoni. Per quanto riguarda gli organi di secondo grado provinciali regionali direzione, la loro frequente pletoricità va rivista, perfino con eventuali dimissioni collegiali: si tratta di strutture che non garantiscono in nessun passaggio un governo democratico delle decisioni e che invece legittimano le decisioni prese fra pochi incontrollati.
Ma non possiamo affidare a passaggi solo formali questo adeguamento. Personalmente chiedo formalmente una garanzia al PD: che si smetta di premiare, per ragioni di equilibrio chi ha sempre remato contro, chi è responsabile dei ritardi del nostro progetto, chi resta un simbolo della vecchia politica. Abbiamo scoperto, sulla scia della cultura avversaria, il valore dell’ immagine; per favore traduciamolo almeno in un linguaggio di comunicazione sobrio ma forte e autentico.

La sfida di fondo però, di lungo periodo, senza la quale non c’è futuro per noi, è investire, investire idealmente, politicamente, econoimicamente, sulla cultura politica di questo paese, essere protagonisti di una sua rinascita civile. E questo va fatto a due livelli fondamentali.
Esiste, ed è drammatico un problema elementare di acculturazione primaria al senso stesso del fare politico, che si scontra con il nostro sistema di informazione, insieme elitario e fuorviante. Dovremmo ricordare di più quella che è stata la grande funzione di acculturazione dei partiti di massa storici, e in un’epoca segnata dall’ analfabetismo, la novità di un messaggio che faceva scoprire la solidarietà come convenienza collettiva. Dobbiamo dotarci di strumenti adeguati, certamente elettronici ma non solo; non possiamo dimenticare il ruolo chiave della parola scritta, della sua permanenza nel tempo, oltre l’immediata attualità.
Non basta parlare di radicamento sul territorio: in un paese moderno il radicamento non si costruisce mai solo sul rapporto personale; si costruisce anche col supporto della coerenza quotidiana e settimanale di un messaggio pubblico, condiviso e oggettivamente costruito.
Il problema di un quotidiano, non dirò nemmeno più in senso stretto di partito, ma che si muova intorno a un obiettivo comune forte, di un settimanale di divulgazione popolare, di riviste di dibattito, di collane di formazione, non è, orami più un capriccio da intellettuali. Dobbiamo considerarle una questione di sopravvivenza e affrontarle come tali, impegnando anche noi stessi, qualcuno a parlato di un grande azionariato popolare per invertire una tendenza che vede Libero e Il Giornale vendere ognuno il doppio di quanto vendono l’Unità e Europa messi insieme.
Il secondo livello è perfino più impegnativo politicamente e ne accenno soltanto il senso che si lega alla risposta da dare alla sparizione della sinistra dall’ orizzonte istituzionale. Dietro questa sparizione c’ è stata, assai meno per colpa nostra che della sinistra, una sottovalutazione della sfida di politica culturale implicita nel disegno dell’ Ulivo; una sfida che per ragioni di brevità sintetizzerei nel problema di legare realismo e utopia. E’una legge fondamentale della vera politica avere grandi alte ambizioni di lungo periodo e sapersi muovere entro i condizionamenti della realtà quotidiana dei tempi che si vivono: le ragioni del non trattino fra centro e sinistra stanno anche qui. E dobbiamo riscoprirlo, se vogliamo, lo dobbiamo volere, riempire il vuoto che si è creato, il vuoto che ci ha penalizzato. Il Pd è nato per aprire una nuova fase della storia italiana, per concludere una transizione mancata, per riscattare le sconfitte di trent’anni: non ci è toccato il compito di farlo al governo; il compito che ci tocca ora è di farlo entro la società, valorizzando i tanti che già si muovono in questa direzione.

Paola Gaiotti
Direzione romana PD
9.5.08