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domenica 7 dicembre 2008
Chiesa e democrazia, il nodo della laicità
(Paola Gaiotti de Biase)
a cura di RNxPD
(07:47)
Paola Gaiotti ci fa pervenire la sua relazione al convegno

In ricordo di Pietro Scoppola
Quando i cattolici non erano moderati

Fondazione Gorrieri, Modena 28-29 11 2008


1 Avete voluto dare a questo incontro insieme il carattere di un ricordo di Pietro Scoppola in chiave collettiva e di una riflessione su quanto gli dobbiamo per continuare il nostro impegno. E mi avete chiesto di farlo su un tema che ha costituito una delle ragioni del legame profondo, amicale, di un’amicizia costruita anche nella consuetudine di vacanze suggestive e nella pratica ultradecennale di letture bibliche in gruppo, oltre lo stesso impegno civile comune; ma che, aldilà della stessa amicizia, è stato anche il segno che ha unito una generazione, in particolare quella generazione di giovani credenti che aveva fra i sedici e i vent’anni nel momento del ritorno della libertà. Mi piace scegliere questo elemento unificante della nostra riflessione piuttosto che quello di cattolici non moderati. In realtà siamo stati tutti, insieme o alternativamente, a seconda dei tempi e dei problemi con cui ci dovevamo confrontare, ora radicali ora moderati, nel senso proprio del termine, cioè prudenti e realisti, e anche questo è stato un segno della nostra laicità, di quello che, come dirò subito, Scoppola chiamava “ il rispetto dell’identità delle cose”.
Mi sembra giusto infatti partire da quella che è anche una mia antica convinzione, citando direttamente un passaggio di Pietro nella sua ultima, alta e preziosa, meditazione: “ La laicità non riguarda solo gli stati, le leggi, il modo di essere delle istituzioni: la laicità è prima di tutto un modo di vivere l’ esperienza religiosa a livello personale e interiore; se manca questa condizione interiore anche gli aspetti istituzionali della laicità ne risulteranno indeboliti e compromessi. … laico è colui per il quale le cose ci sono nella loro propria identità”,[1] e non intendeva certo nell’identità di una definizione data a priori, astrattamente una volta per tutte, ma di un’identità verificata costantemente nel concreto della esperienza e di una ricerca personale.
Voglio dire: il fondamento della laicità è nel senso stesso della novella cristiana, nel modo di intendere il rapporto con Dio e con la sua creazione, il modo di essere della prima comunità dei credenti. Nel “date a Cesare…” c’è assai più che una spartizione di ruoli; è evocata la natura del nostro debito verso Dio, del significato del sacro.
Non possiamo parlare di laicità se non viviamo, e noi abbiamo tendenzialmente vissuto, la novità radicale della fede cristiana rispetto alle tradizioni religiose altre, compresa quella ebraica di cui è figlia. In primo luogo il bisogno religioso non ha il suo primo fondamento nella risposta a un’esigenza di identità collettiva, etnica o statuale da contrapporre ad altre identità; ha detto recentemente Marco Ivaldo “l’ispirazione cristiana è disidentificante, pone in crisi un’identità chiusa e che si voglia autosufficiente”; è la risposta ad un’identità personale di figli di Dio che si esprime dinamicamente a partire dalle esperienze di vita, nell’universalismo dell’amore con i fratelli, nel superamento di tutti i confini dell’ annuncio, nella tensione per il non ancora e, per questo, nella costruzione di una nuova comunità. Se nel costruirsi storico dell’Europa c’è la vicenda delle grandi conversioni collettive di popoli, questo può essere un dato della storia da analizzare nelle sue ragioni, anche provvidenziali, difficilmente può essere fondato sulla natura dell’annuncio evangelico.
In secondo luogo la misura della fede sta nell’intenzione d’amore che prevale sul rispetto delle norme della legge, sulle verifiche materiali della purità, e prevale attraverso il primato della coscienza. Il sacro così non si identifica più nel separato, nella selezione dell’accesso, nel rispetto del proibito, dà un senso altro al tempio, al sabato, alla legge, ma si rivela nell’uomo simile a noi, l’affamato, l’assetato, il malato, colui che siamo chiamati nella concretezza del vivere a soccorrere.
Non può e non deve esserci in questa consapevolezza la tentazione di un orgoglio, di una superiorità, c’è il rispetto delle condizioni di un mandato. Questo modo di sentirsi cristiani è anche la condizione del dialogo paritario, aperto, sia con quanti per cui, secondo il discorso paolino, Dio è ancora Ignoto, sia con quanti si rifugiano nella immutabilità del fondamento posseduto.

2 Senza rendere esplicito e impegnativo il nostro fondamento nella novità del messaggio evangelico, perennemente da rinnovare, restano incomprensibili le ragioni dello stesso emergere della laicità nel continente cristiano, il senso del lungo processo che ha segnato la storia dell’Occidente, pur carico di contraddizioni, fra rivendicazioni clericali e perenne esigenza di fedeltà evangelica, fra tentazioni teocratiche e, esperienze comunali, fra anticipazioni tomistiche ( Fassò defini Tommaso il primo whig della storia) rigidità controriformistiche e audacia calibrata dei monarcomachi. Senza vivere quel fondamento perde valore anche la rivendicazione dell’origine cristiana della distinzione laica fra i poteri.
Non è il caso di ricostruire qui il come abbiamo vissuto questa storia complessa. Per quanto mi riguarda, so di dovere, fin dagli anni della mia formazione universitaria, al mio maestro Carlo Antoni, un laico attraversato da una forte domanda religiosa interiore, la lettura, non ideologica e non prevenuta, del pensiero moderno, delle sue ragioni interiori, delle sue articolazioni e radici cristiane, protestanti e cattoliche, contro i semplicismi degli integralismi ricorrenti, e perciò anche lo sviluppo consapevole della chiave nettamente laica presente nella mia religiosità. Ho scoperto, dall’ultimo prezioso libretto di Pietro, di avere avuto in comune con lui molte più letture giovanili di quanto pensassi. Ma, a mo’ di biografia collettiva, non posso non richiamare il discorso di Lazzati del 1951, occasionato dalla vicenda dell’operazione Sturzo, le pagine fondamentali dello stesso Luigi Sturzo su Chiesa e Stato, lette più tardi, al momento della loro pubblicazione italiana, la lezione alta di Moro, il quadro autorevole disegnato nel noto convegno sulla laicità dell’Università Cattolica nel 1986, e, fra tanti contributi di cari amici quelli di Paolo Prodi, per la storia moderna. E ovviamente di quello di Pietro Scoppola nella difficile sfida della storia contemporanea in genere, sia per il bilancio articolato e sofferto dei rapporti fra la Chiesa e la modernità, sia per il riconoscimento anticipato, in controtendenza alla storiografia di allora, del rapporto forte fra cattolicesimo liberale e maturazione democratica dell’intransigentismo, come appare già nel Dal neoguelfismo alla Democrazia cristiana e poi nel fondamentale lavoro su De Gasperi.
Ciò che più conta oggi è che questo fondamento evangelico è il primo elemento che ci consente di riconoscere la sfida moderna della laicità come cosa nostra, non come cedimento, non come resa obbligata, ma come risposta, forse in ritardo, forse non ancora del tutto compiuta, sulla nostra stessa identità religiosa. Ci consente di considerare la scoperta moderna insieme della democrazia e della laicità, pur vedendone tutte le sue forzature, i suoi ideologismi, le sue parzialità, come un fatto provvidenziale, liberatorio della nostra stessa spiritualità fedele, almeno così come Paolo VI riconobbe per la caduta del potere temporale; ci consente di rivendicare come un contributo valido anche per altri la coscienza della non assolutezza della politica, del suo limite con cui abbiamo accompagnato quella scoperta; un fatto, insomma, nel quale non possiamo più essere controparte, anche là e dove riteniamo di poter avanzare critiche sui modi di viverlo.
Il fatto è che senza la lunga querelle laica, e perfino laicista, sull’autonomia della scienza, della politica, della coscienza individuale e della soggettività personale, fino alla scoperta della sessualità, noi non saremmo qui a parlare del valore delle realtà terrene, come luoghi di un’economia della salvezza che non si misura solo nell’attesa dell’aldilà; e non saremmo qui a parlare del valore e dei diritti della persona, di tutte le persone, (vorrei sottolineare esplicitamente, uomini e donne) come imago Dei da rispettare sempre nella loro unicità; non saremmo qui a dare per ovvia, per scontata quella convergenza fra fede cristiana e democrazia che si è espressa nell’etichetta cattolico-democratico; non avremmo, per citare le sollecitazioni dello stesso papa Benedetto XVI, né un’idea più articolata di una speranza non solo celeste, nè la rilettura credente del valore dell’ eros.
La storia della secolarizzazione è una storia complessa, una storia di conflitti, ideali certo, ma assai spesso materiali, e materiali da una parte e dall’altra, di fragilità e di contraddizioni, in cui ogni parte, ha il suo esame di coscienza da fare; anche la Chiesa, fino al dovere di chiedere perdono, per gli scarti di una testimonianza che non sono stati irrilevanti nello sviluppo di un secolarizzazione selvaggia. In questo la riflessione di Pietro nel La nuova cristianità perduta è una riflessione ancora attualissima e carica di suggestioni.
La vicenda della secolarizzazione, come del resto ho cercato di dire in un recente lavoro, si dipana con troppe varianti per farne oggetto di una nostra comune e pretenziosa condanna. In particolare quella che ho chiamato l’asimmetria di genere della secolarizzazione, il lungo tentativo di tenere fuori le donne dalla scoperta di sé, rimanda a una colpa e a una inevitabile autocritica per molti versi comuni alla tradizione cattolica e alla cultura laica. Ma, più in generale, la secolarizzazione assume, nell’arco di quasi tre secoli, forme diverse, non sempre così nettamente separate fra loro: quelle eticamente alte basate sulla fiducia razionale nell’uomo, quelle ideologiche e rivoluzionarie legate al sogno di un paradiso terreno, quelle selvagge, tendenzialmente edoniste, dovute al consumismo, quelle infine che hanno intercettato esplicitamente la nuova scoperta di sé del cristiano: esse vanno lette e ricostruite per quello che sono, mai semplificate entro l’immagine generica di una scristianizzazione perversa alla quale si tenta di contrapporre un’immagine altrettanto astorica e generica della fedeltà, condivisa ma spesso come ovvia, non come scelta, della cristianità che l’ha preceduta.
E’ nella complessità anche feconda del senso della secolarizzazione, la ragione dell’incontro culturale fra cattolici e laici, di cui nell’esperienza di Pietro e di altri amici è stato segno anticipatore già l’esperienza del Mulino.

3 E’ qui anche la lettura della storia che è stata sanzionata dal Concilio Vaticano II. Abbiamo, credo, sempre sentito tutti come estraneo il falso dilemma continuità- rottura, come chiave di quell’evento, che, in nome della salvaguardia della continuità, riduce a “rottura” ogni adeguamento innovatore della coscienza cristiana ai segni del tempi. Ciò che è stato definito poi come “rottura” della tradizione ( in realtà delle sue forme storiche umane e datate) era già la condizione implicita, forse inconsapevole, del nostro essere restati cristiani, che veniva alla luce non come “rottura” ma come senso e ragione, come “continuità” perenne della Chiesa, che così avevamo potuto amare, pur entro tutti i limiti della catechesi formale di allora. Il Concilio insomma ci ridava una Chiesa in cui ci eravamo andati riconoscendo già prima, come i preziosi appunti di Pietro mettono in evidenza. E ce la dava con una nuova pienezza: una Chiesa amica della storia moderna e delle libertà conquistate, una Chiesa segnata dalla sovranità in essa del messaggio evangelico, dal primato della coscienza sulla legge, della comunità sull’istituzione, dell’amore sulla dottrina, della misericordia sulla disciplina, e ancora dalla collegialità episcopale, dal dialogo ecumenico, dall’universalità della salvezza, dall’appartenenza del laico al sacerdozio universale dei fedeli all’attenzione ai segni dei tempi. Legittimava il senso di responsabilità politica con cui avevamo vissuto la liberazione alla fine della guerra, dando più forza alla nostra responsabilità comune di umani, che alla difesa dei cosiddetti interessi della Chiesa. E ci confermava nelle spiritualità laicali, spesso francesi ma anche intrecciate fra loro, come la Fuci, lo scoutismo, Rinascita cristiana, che avevano accompagnato la nostra crescita.
Penso di poter dire, in questa rievocazione di una biografia collettiva nel nome di Scoppola, proposta da una Fondazione dedicata a Ermanno Gorrieri, che questo avveniva senza forzature, senza radicalismi, più diffusi fra i credenti che avevano avuto una formazione più tradizionale della nostra. Eravamo stati, come tanti laici colti, portati fin d’allora a solidarizzare con le voci di minoranza della Chiesa, da Rosmini a Newman a Blondel, ma ora, col Concilio, andavano abbandonate nella ricerca intellettuale, avanguardie e ignavie, per andare avanti con tutta la Chiesa in un ritrovato spirito ecumenico. Non ci riguardò dunque molto, nel decennio che seguì, segnato da una ventata antiistituzionale e antiautoritaria, l’emergere di un dissenso, che rispettavamo nelle sue ragioni, ma che rischiava di produrre esso stesso gli effetti che lamentava. Vorrei qui ricordare l’intervento di Pietro al Convegno di Lucca nel 1967, su I tempi nuovi della cristianità che dissuadeva dalla pretesa di dedurre comunque dal Concilio, in un senso o nell’ altro, le risposte al tema, ancora attuale, del superamento dell’unità politica dei cattolici, che doveva restare un tema politico, da legare solo alla nostra responsabilità di cittadini.

4 Sulla base di queste considerazioni mi sembra inutile ritornare su un punto, anche semanticamente, assodato da tempo e che deve essere considerato come un problema ormai oggettivamente superato: la laicità, e il suo rapporto con la democrazia, è altro dall’opzione credente-non credente, non si gioca sulla irrisolvibile contrapposizione fra l’Etsi Deus non daretur e il suo contrario. Basterebbe riprendere il l’esperienza fondante della democrazia americana, con le sue forti radici religiose, già prevalsa da tempo di fatto rispetto a quella francese, con la sua enfasi statalista, per scavalcare di colpo un dibattito anacronistico, cui mi sembra un errore ormai prestare un eccesso di attenzione, superato come è già nella stessa nota sentenza della Corte Costituzionale.
Il problema contemporaneo del tema della laicità mi pare davvero più complesso. Un recente documento politico -costitutivo all’interno del partito democratico dell’associazione “ Per”- appare fondarla nella rinascita delle religioni sulla scena mondiale di questo Ventunesimo secolo. Porre l’attualità del problema laicità solo come conseguenza positiva del ritorno delle religioni rischia a mio avviso di falsare le reali sfide del nostro tempo.
Si tratta di più sfide epocali. La prima, è il carattere attuale di questa rinascita religiosa, e cioè il rischio del fondamentalismo e della ricerca d’identità, della commistione fra religione e difesa dell’identità nazionale, della funzione di rassicurazione e di garanzia normativa delle religioni di fronte ai pericoli del nuovo, un rischio tanto più serio perché si intreccia con gli effetti di una globalizzazione vissuta come estraniazione e costrizione. Su questo terreno, da cui nasce anche un forte potere contrattuale delle religioni, non solo non fa passi avanti la laicità, ne fa indietro anche il “dare a Dio quello che è di Dio”.
Di fronte a questo rischio ciò che va richiamato è, a me pare, proprio quel paragrafo della decisiva sentenza della Corte Costituzionale,, n.203 del 1989, che riconosce esplicitamente il valore delle esperienze religiose come elementi vitali della democrazia, ma aggiunge, “alla condizione che accettino il pluralismo”, valorizzando così il pluralismo confessionale e culturale delle Chiese e delle opinioni e favorendo un clima di dialogo tra credenti, diversamente credenti, e fra credenti e non credenti.
Vorrei essere chiara su questo punto; quella sentenza non può intervenire come censura su qualche modo di vivere la propria esperienza religiosa personale. Pone in questione altra cosa, il confine oltre il quale le esperienze religiose, tanto più nel loro aspetto collettivo, non possono essere riconosciute come elementi vitali della democrazia. Non sottolineeremo comunque mai abbastanza che il fondamento della libertà religiosa, quella dei credenti e quella dei non credenti, sia come diritto individuale sia come diritto della testimonianza comunitaria, sta nell’accettazione del primato della coscienza, per noi credenti richiamato nel par. 16 della Gaudium et spes, ma che non può non esserne il fondamento comune a tutti.
La seconda sfida è quella su cui molto è stato scritto, da Habermas a Bockenforde, e cara anche a Pietro, dell’incapacità della democrazia di riprodurre i fondamenti etici che sono in grado di garantirla e dunque la valorizzazione dell’esperienza religiosa come elemento di riconoscimento comunitario. Ma avvertiamo il rischio di cortocircuiti fra queste due sfide, e quello di un uso strumentale della religione, in parte implicito nel concetto di religione civile? Non c’è già un possibile sospetto di fondamentalismo, una pretesa di egemonia in questo riconoscersi l’inevitabilità di un compito esclusivo, peraltro sostanzialmente storico e terreno? Io credo che come cristiani dovremmo piuttosto insistere che credenti, non credenti, diversamente credenti, si sentano convocati insieme a ripensare razionalmente i fondamenti etici della democrazia, a combattere meglio il persistente cinismo di troppi comportamenti, a fare davvero di quei fondamenti l’asse della formazione delle nuove generazioni, il criterio di lettura degli obiettivi programmatici da proporre al consenso popolare.
La terza sfida è certamente legata all’emergere, di fronte al circuito dello straordinario nuovo potere tecnologico dell’umanità e delle incomprimibili soggettività contemporanee, di temi etici ieri imprevedibili. Ieri qui Castagnetti ha rivendicato come merito della Chiesa cattolica quello di avere posto, intorno a tali temi la questione antropologica. Abbiamo il dovere di chiederci se i modi sono stati efficaci a far crescere anziché a bloccare gli interrogativi. Porre una questione non può significare chiuderla, darla per risolta, scavalcare le domande alternative che nascono dall’esperienza collettiva. Qui io credo che l’analisi etica e la testimonianza credente ha più cose da dire che la riconferma di norme astratte e comunque coercitive, maturate in una storia umana altra da quella che viviamo; è chiamata più che mai a interrogarsi insieme su sé stessa e sulla natura reale delle questioni che si pongono, senza rinchiudersi né nell’equivoco dei principi non negoziabili e né in quello dell’idea di natura.
La laicità infatti è un metodo, ma un metodo che non forza mai la ragionevolezza e la condivisibilità delle sue conclusioni in relazione a principi unilateralmente stabiliti come universali. Ha scritto Pietro l’evoluzione profonda del rapporto fra fede e ragione “esige un di più di libertà reciproca e un di più di responsabilità e di prudenza: una valorizzazione di quella soggettività tanto spesso sacrificata nel pensiero cattolico”[2], e aggiungo una soggettività che non può essere assimilata al relativismo, perché Scoppola la misura anche, più volte, sul senso della comunità credente “per cui non si crede da soli”. In politica, da una parte i gli unici principi non negoziabili sono quelli fondanti delle Carte scritte della convivenza; dall’altra vi resta sempre aperto il problema delle priorità da definire e degli strumenti più efficaci per garantirli, da scegliere, il che non può non essere terreno di negoziabilità.
E non può rifugiarsi in un’idea fissista di natura, perchè essa è comunque perennemente rifondata dalla ricerca moderna secondo la stessa lucidissima anticipazione di Tommaso “natura dell’uomo è la sua ragione”. Del resto lo stesso Cardinal Ratzinger ha giudicato il diritto naturale “uno strumento purtroppo diventato inefficace” in una società laica e pluralistica,: pertanto, “come ultimo elemento del diritto naturale, che vuole essere il più profondamente possibile un diritto razionale - almeno nell’età moderna - sono rimasti i diritti umani”[3]. Sembrerebbe dover essere definitivamente chiuso il triste capitolo storico di un preteso conflitto fra i diritti di Dio e i diritti dell’uomo.

5 Quei rischi del nostri tempi che abbiamo sopra evocato hanno una forma italiana, altra da quella dei fondamentalismi protestanti statunitensi, da quello islamico o da quello indù. Vorrei dirlo con le parole di un altro grande amico, appena scomparso, che ha segnato anche lui la storia di questo paese, Leopoldo Elia, in una delle sue ultime magistrali lezioni. In Italia questa fase storica è stata, ha scritto Elia, legata a “un “riposizionamento” della Chiesa, consistente in un interventismo anche politico di carattere identitario, che ha origini molteplici e complesse, comprendenti in primo luogo la scomparsa della Democrazia Cristiana, distintasi per aver mediato, quasi sempre con coraggio e dignità, tra pretese ecclesiastiche e ragioni della politica. Riempire quel vuoto con iniziative proprie di un grande gruppo di pressione (il maggiore del Paese) ha aperto la strada alla formazione di un partito a destra delle tradizionali posizioni della DC, un partito che costituisce di per sé stesso una tentazione continua ad utilizzare i suoi voti”[4]. E qui Elia stesso cita Pietro Scoppola: “Questa linea di fatto ha due costi simmetrici: da un lato la Chiesa paga in termini di legittimazione del potere i benefici che dal potere le vengono concessi; dall’altro il potere piega o tenta di piegare la Chiesa ai suoi disegni in un uso politico che è sempre nocivo alla immagine della Chiesa. In ogni caso la laicità della politica e dello Stato risulta compromessa”[5]
Ma, aggiunge Elia, resta compromessa anche “l’autenticità della collaborazione del credente alla storia che si fa, l’efficacia della testimonianza comunitaria, la forza dell’annuncio: una nuova “faculté d’empêcher” fa differire, ritardare, con tattica ostruzionistica, le decisioni sulle proposte legislative sgradite, sostituendo i politici nel giudizio su che cosa è più urgente per gli italiani e che cosa lo è meno, incidendo sull’agenda dell’esecutivo e del Parlamento nelle materie ritenute sensibili”.
Possiamo negare che in Italia, il nodo del rapporto fra laicità e democrazia è qui?

6 Ho richiamato prima il significato della laicità che in tanti, in forme diverse, da Scoppola a Gorrieri, da Andreatta a Ruffilli, da Carlo Moro a Bachelet, da Ardigò a Giuntella, abbiamo condiviso con Pietro, ragioni del primato dell’amore da una parte, ragioni del rispetto della realtà concreta, del documento, dell’”eppur si muove”, grazie insieme al dovere dell’analisi responsabile e approfondita, della ricerca perenne, e di una ragione capace di esprimersi, come ha scritto Habermas “ in una lingua accessibile a tutti”.
E su questo che abbiamo il dovere di verificare la coerenza della nostra laicità cristiana sui temi cosiddetti sensibili e su quelli su cui pare dover esserci meno sensibilità, dalle sfide della globalizzazione e della competitività esasperata, ai ritorni di violenza e di rifiuto dell’ altro, al rispetto della legalità e della statualità.
Per restare ai primi io credo che il cattolicesimo democratico abbia maturato i criteri per intervenire, secondo quella logica che ci ha richiamato Pietro, “il rispetto dell’identità delle cose”, con più autorità di quanto non gli sia di fatto concessa dall’attuale dibattito, quello interno alla Chiesa che vorremmo più aperto e libero, quello pubblico, politico, che vorremmo meno governato dalla logica dello spettacolo e dal peso delle posizioni di rendita.
Dirò di più: ha oggi il dovere di darsi strumenti di comunicazione e di visibilità, spazi di confronto e convergenza autentica, strumenti di testimonianza della variegatezza delle sue posizioni meno dipendenti dalle logiche del mercato dell’informazione. Veniamo criticati spesso per il nostro silenzio, ma siamo in parecchi a sentire invece piuttosto l’impotenza delle parole che riusciamo a produrre nel cicaleccio generale.
Come esempio storico della nostra capacità di anticipazione e della disattenzione ricevuta, non posso non ricordare qui a Modena lo straordinario contributo di Ermanno Gorrieri sul tema della famiglia . Le politiche per la famiglia, non a caso declinate al singolare, sono state a lungo in Italia più occasione di scontro ideologico, in cui ha prevalso l’enfasi retorica sul valore famiglia, sulle soluzioni concrete e sta qui la ragione per cui siamo il paese fanalino di coda in Europa. L’enfasi retorica è in sé stessa un errore. Resto legata a una bella riflessione di Emmanuel Mounier che ci ammonisce che “la famiglia è, innanzitutto, una struttura carnale, complicata e difficilmente del tutto sana, che produce a causa dei suoi squilibri affettivi interni, innumerevoli drammi, individuali e collettivi”[6]. Ed è per questo che va laicamente sostenuta, non per il suo essere modello di vita esaustivo, cellula prima e originaria della vita sociale.
Gorrieri ha rappresentato un esempio di un approccio laico al tema dei bisogni delle famiglie, al plurale, tutto costruito sul valore costituzionale della lotta alle disuguaglianze anche come condizione dell’esercizio delle responsabilità, legando definitivamente cultura dei diritti personali e sostegno alle famiglie, sulla scia del resto del contributo di Moro alla Costituzione. Ricordo bene il commento di Michele Salvati ad una mia proposta di emendamento, costruita sulle ricerche di Gorrieri, al dispositivo del suo “L’Italia verso il 2000” che doveva essere il programma del PDS nel 1992, in cui effettivamente la inserì: “Questo va benissimo, questo è un approccio laico”. Ma rientrano in questa logica laica anche maggiori attenzioni al monitoraggio concreto delle crisi familiari (penso alla lunga battaglia di Carlo Moro, e altri per il Tribunale della famiglia, per lo sviluppo dei consultori) e il dovere politico di creare più le condizioni per l’ esercizio delle responsabilità personali, favorendo la cultura diffusa della solidarietà reciproca nel tempo, le tendenze spontanee alla stabilità del rapporto, di ogni rapporto, anche entro relazioni che restano informali. Sul tema dell’aborto ciò che è in gioco politicamente non è il giudizio etico su di esso, ma la questione delle strategie per combatterlo, fra il fallimento definitivo di quelle repressive e l’insufficienza attuale di quelle preventive, dall’educazione sessuale alla diffusione della contraccezione, alle politiche sociali di sostegno mirate anche a superare la solitudine delle donne. Così come non possiamo confondere l’unicità genetica dell’embrione, che è un dato da rispettare ( e che è alla base del rifiuto della clonazione) con la sua pienezza di persona, ignorando che la natura stessa affida alla fase fra concepimento e insediamento nell’utero, una funzione selettiva in difesa della specie, che comporta la distruzione dell’80% degli embrioni.
Anche il dramma che è sulle pagine dei giornali di questi giorni ci rimanda all’esigenza del rispetto di un’identità delle cose, ricercata nel confronto delle reciproche esperienze. Davvero il dovere evangelico del pane e l’acqua all’affamato e all’assetato, il rispetto della vita e della morte naturale, possono identificarsi nella sofisticazione tecnologica di un sondino, di nutrienti e idratanti artificiali, imposti, aldilà anche di volontà già espresse, a chi non avverte più né la fame né la sete?


[1] P. Scoppola, Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia, 2008, p.92
[2] P.Scoppola , Un cattolico a modo..cit., p.72
[3] J. Habermas e J Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, Accademia cattolica di Baviera, gennaio 2004 a cura di G. Bosetti, Marsilio, Venezia, 2005, p.74-76
[4] L.Elia , Introduzione ai problemi della laicità, in Atti del convegno annuale 2007 dell’ Associazione italiana dei costituzionalisti, Problemi pratici della laicità agli inizi del XXI secolo, Cedam 2008
[5] P.Scoppola Cristianesimo e laicità in Le ragioni dei laici, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 124.
[6] E.Mounier, Il personalismo, Ave, Roma 1964, p.150